mercoledì 2 marzo 2011

Anni 70



Penso che tutto cominciò negli anni 70.
Proprio mentre il mondo cambiava, i frutti del boom economico, le abitudini, gli elettrodomestici. Mio padre mi portava sempre a tirare due calci a un pallone, di cuoio grigio, regalo di una “befana del ferroviere”, i doni di natale istituzionali ai figli di chi lavorava in ferrovia. Di solito, erano sempre gli stessi: trenini Lima elettrici (adesso fanno la fortuna dei collezionisti, ma in casa ne avevamo due, sempre rimasti nell’armadio della cantina), riproduzioni quasi perfette di vagoni, binari, locomotive. Ne veniva fuori un “plastico” che montavamo una volta l’anno in media, e che potevamo limitarci a guardare stupiti. Il treno si muoveva sui binari, costruiti in percorso misto, tra curve e rettilinei, montagne di carta da pacco, o tra finti incroci. Bello, bellissimo. Una noia mortale. Mio fratello però, ne era affascinato. Era sicuramente più attratto di me da costruzioni, schiere di soldatini, modellini in scala.
Uno dei miei primi ricordi legati a lui riguarda una parata di soldatini inglesi in grand’uniforme rossa, quelli di Buckingham Palace per capirci, con tanto di colbacco nero. Non so per quale astruso motivo (o meglio, non lo sapevo allora, adesso che ho studiato René Girard ne comprendo meglio i meccanismi dettati dall’invidia, dal risentimento ecc.) ma con un calcio scompaginai la fila perfetta, spargendo il terrore tra la guardia scelta di sua maestà britannica e dando inizio ad una lite sedata a stento dalla zia. Lo stupore che mio fratello maggiore avesse un "ordine" sociale e mentale, dimostrato in quel giocare silenzioso e quieto era stato troppo per me. Allora, mi ricordai del mio dono, buttato in un angolo della stanza che chiamavamo "vecchia", perché i miei genitori non l'avevano ancora arredata, ed era un'accozzaglia di cianfrusaglie. Quel giorno, la “befana” aveva colpito nel segno: quel pallone segnò i miei giorni a venire, con la precisione terribile e regolare di una fatalità.
 I primi approcci non furono facili, come in tutte le grandi storie d’amore: un appartamento di città, un corridoio, una terrazza non sono i posti più comodi per giocare a calcio. Il pallone di cuoio, poi, non aiutava, perché ad ogni rimbalzo rischiava di finire su un vaso, su una abat-jour, sul lampadario. Ed ecco allora venirti incontro la saggezza impassibile dell’istituzione. No, non sto parlando di scuole calcio (agli inizi degli anni 70 era una parola sconosciuta) o di leve calcistiche (ho scoperto che esistono davvero, non era soltanto un paradosso inventato da De Gregori, ma è più che altro un'istituzione del nord Italia). Al massimo, avremmo fatto esperienza di sport a scuola in qualche scialbo pomeriggio, un po’ di anni più tardi, convocati dal prof. di educazione fisica dell’altra sezione: provare a correre contro altri ragazzi delle medie, e restare il resto del tempo a vedere i ragazzi più grandi giocare a basket nella palestra della scuola.
Niente a che vedere con l’unica cosa che consumava i miei pensieri e i miei pomeriggi: il calcio!

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