sabato 12 marzo 2011

INVICTUS




Con un pò di ritardo, oggi pomeriggio ho visto “Invictus”, il  (penultimo) film di Clint Eastwood, con ambientazione rugbistica. Il film racconta la vera storia del Mondiale di Rugby del 1995 in Sudafrica, all’indomani dei rivolgimenti storici e politici che hanno portato alla fine dell’Apartheid e all’avvento come Presidente di Nelson Mandela. 
Bel film, si fa guardare. Certo, niente a che vedere con l’altra prova di cinema “sportivo” di Eastwood, “Million Dollar Baby”, superba storia di boxe, mancanza della figura paterna, e biopolitica (ovvero, il problema di eutanasia, testamento biologico e molto altro).
Lo dicevamo nel post di inaugurazione del blog. Esistono tanti bei film ( e bei libri ) sullo sport. Esistono grandi  - direbbero i sociologi - narrazioni sullo sport. Ma poche storie sul calcio. 
Torniamo però ad alcune considerazioni marginali sul film. Chiaramente, come direbbe il mio amico Salvo che fa il regista, la pellicola si presta a vari piani di interpretazione. La cosa più importante sembra essere l’incontro tra Mandela ed il capitano della Nazionale sudafricana, da cui la squadra trarrà la forza per andare a vincere il titolo. Il rapporto tra vecchio Presidente di colore e il giovane WASP boero esprime il senso della lotta, della speranza di costruire un paese nuovo e di vincere un insperato Mondiale. Ma di sicuro, qualcuno avrà notato il fatto che alla fine del Rugby a Mandela non gliene poteva fregare di meno: i Mondiali erano diventati un affare politico, un Instrumentum regni per dimostrare l’unità del paese ancora ferito, in un contesto - quello del rugby appunto - prettamente bianco.
Ma secondo me tutto ciò vale solo a girare intorno alla riflessione di fondo. E cioè, in primis, che gli americani queste cose le sanno fare proprio bene.
L’altra, e più importante, è che l’emozione più grande, per noi, era stata esattamente un anno prima, proprio negli States, ai Mondiali USA 94. Vuoi mettere la disgrazia infinita di vedere Baggio tirare alto il rigore in finale? Roba che Clint Eastwood neanche si può immaginare. O il pianto disperato di Capitan Baresi alla fine dei rigori? O il mister Arrigo Sacchi, che, intervistato proprio prima della finale Italia-Brasile, risponde ai giornalisti di sentirsi tranquillo e rilassato. Con il suo inconfondibile accento romagnolo ha spiegato poi che quelle partite facevano bene al calcio, ed erano un premio per i suoi ragazzi. Le partite difficili che gli toglievano il sonno dalla notte prima erano i derby con il Cesenatico, quando allenava il Fusignano! Ecco, a noi piace, con tutto il rispetto per l’INVICTUS, raccontare ed emozionarci con i nostri VICTI.
Ultima considerazione: il rugby, come si suol dire, in Italia gode di buona stampa. Pubblicità, servizi, articoli. Le tifoserie ecc. Leggo su facebook di tanti amici che dicono “beh, il Galles ce le ha suonate, ma che bella festa!”. Ecco. questo è ciò che non sopportiamo, la falsità tiepida. Basta. Se uno è appassionato di uno sport, è tifoso, militante, si incavola di brutto se vede la sua squadra perdere. Si rovina il weekend, non parla alla moglie e via discorrendo. Non credo alla passione di chi dice “abbiamo perso, ma che bella festa!” A meno che, ad onor del vero, non sei colpito dal tarlo del tifare-contro. Come mio padre. Che da una vita festeggia quando vede perdere la Nazionale!
“Il football è uno sport per galantuomini giocato da selvaggi, il rugby è uno sport per selvaggi giocato da galantuomini”. Stucchevole.

mercoledì 2 marzo 2011

Anni 70



Penso che tutto cominciò negli anni 70.
Proprio mentre il mondo cambiava, i frutti del boom economico, le abitudini, gli elettrodomestici. Mio padre mi portava sempre a tirare due calci a un pallone, di cuoio grigio, regalo di una “befana del ferroviere”, i doni di natale istituzionali ai figli di chi lavorava in ferrovia. Di solito, erano sempre gli stessi: trenini Lima elettrici (adesso fanno la fortuna dei collezionisti, ma in casa ne avevamo due, sempre rimasti nell’armadio della cantina), riproduzioni quasi perfette di vagoni, binari, locomotive. Ne veniva fuori un “plastico” che montavamo una volta l’anno in media, e che potevamo limitarci a guardare stupiti. Il treno si muoveva sui binari, costruiti in percorso misto, tra curve e rettilinei, montagne di carta da pacco, o tra finti incroci. Bello, bellissimo. Una noia mortale. Mio fratello però, ne era affascinato. Era sicuramente più attratto di me da costruzioni, schiere di soldatini, modellini in scala.
Uno dei miei primi ricordi legati a lui riguarda una parata di soldatini inglesi in grand’uniforme rossa, quelli di Buckingham Palace per capirci, con tanto di colbacco nero. Non so per quale astruso motivo (o meglio, non lo sapevo allora, adesso che ho studiato René Girard ne comprendo meglio i meccanismi dettati dall’invidia, dal risentimento ecc.) ma con un calcio scompaginai la fila perfetta, spargendo il terrore tra la guardia scelta di sua maestà britannica e dando inizio ad una lite sedata a stento dalla zia. Lo stupore che mio fratello maggiore avesse un "ordine" sociale e mentale, dimostrato in quel giocare silenzioso e quieto era stato troppo per me. Allora, mi ricordai del mio dono, buttato in un angolo della stanza che chiamavamo "vecchia", perché i miei genitori non l'avevano ancora arredata, ed era un'accozzaglia di cianfrusaglie. Quel giorno, la “befana” aveva colpito nel segno: quel pallone segnò i miei giorni a venire, con la precisione terribile e regolare di una fatalità.
 I primi approcci non furono facili, come in tutte le grandi storie d’amore: un appartamento di città, un corridoio, una terrazza non sono i posti più comodi per giocare a calcio. Il pallone di cuoio, poi, non aiutava, perché ad ogni rimbalzo rischiava di finire su un vaso, su una abat-jour, sul lampadario. Ed ecco allora venirti incontro la saggezza impassibile dell’istituzione. No, non sto parlando di scuole calcio (agli inizi degli anni 70 era una parola sconosciuta) o di leve calcistiche (ho scoperto che esistono davvero, non era soltanto un paradosso inventato da De Gregori, ma è più che altro un'istituzione del nord Italia). Al massimo, avremmo fatto esperienza di sport a scuola in qualche scialbo pomeriggio, un po’ di anni più tardi, convocati dal prof. di educazione fisica dell’altra sezione: provare a correre contro altri ragazzi delle medie, e restare il resto del tempo a vedere i ragazzi più grandi giocare a basket nella palestra della scuola.
Niente a che vedere con l’unica cosa che consumava i miei pensieri e i miei pomeriggi: il calcio!
 
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